di Jocko Beck, Zen Quotidiano (Ubaldini Editore)
Alcuni giorni fa ho ricevuto la notizia del suicidio di un amico, che non vedevo da anni. Quando lo frequentavo parlava unicamente di suicidio, perciò la notizia non mi colse impreparata. Non penso alla morte come a una tragedia. Tutti moriamo, non è tragico. Forse niente è tragico, ma ritengo che vivere senza gratitudine per la vita sia un vero peccato.
La vita umana è un’occasione preziosa. È stato detto che la probabilità di nascere come esseri umani equivale a quella che venga scelto un granello di sabbia tra tutti i granelli di una spiaggia. È un’occasione rara eppure, come nel caso del mio amico, qualcosa non funziona. L’errore è presente in ciascuno di noi: non apprezzare pienamente il puro fatto di essere vivi.
Perciò, oggi parlerò del non avere alcuna aspettativa. Suona orribile, vero? Invece, non è per niente orribile. Una vita libera da aspettative è una vita di pace, di gioia e di compassione. Fin tanto che ci identifichiamo con questo corpo e mente (e tutti ci identifichiamo), ricerchiamo ciò che riteniamo positivo per il corpo e la mente. Desideriamo il successo, desideriamo la salute, desideriamo l’illuminazione, desideriamo una montagna di cose. E l’aspettativa, naturalmente, proviene dalla valutazione del passato che proiettiamo nel futuro.
Basta sedere per qualche tempo per renderci conto che passato e futuro esistono solo nella nostra mente. Ciò che c’è, sempre qui, sempre presente, è il sé. Non si nasconde. Corriamo come matti di qua e di là per trovare questa cosa chiamata sé, questo meraviglioso sé nascosto. Nascosto dove? Cerchiamo cose utili a questo piccolo sé perché non capiamo di essere già il sé. E niente di quanto ci circonda non è il sé. Cosa stiamo ancora cercando?
Di recente mi hanno prestato un libro di Dōgen Zenji, intitolato Tenzo Kyōkun, che espone doveri e modo di vita del tenzo, il capo cuoco.
Secondo Dōgen , il tenzo deve essere scelto tra gli studenti più maturi e meticolosi del monastero. Se la sua pratica è meno che perfetta, l’intero monastero ne risente. È ovvio che Dōgen , descrivendo le qualità del tenzo e le direttive per svolgere l’incarico, non parla soltanto della sua figura ma si riferisce a ogni studente zen, a ogni bodhisattva. Ciò ne fa una lettura istruttiva e pertinente.
Cosa troviamo nella descrizione della vita di un tenzo illuminato? Visioni mistiche? Stati estatici? Niente affatto. Troviamo molti paragrafi su come mondare il riso dalla polvere e la polvere dal riso. Molto dettagliato. Dōgen non tralascia nulla della conduzione della cucina: dove appendere i mestoli, in che modo esatto, e così via.
Vorrei leggervi un passo:
In seguito, non dovreste buttar via con noncuranza l’acqua che rimane dopo la pulitura del riso. Nei tempi antichi si usava un sacco di tela per filtrare l’acqua prima di gettarla. Quando avete finito di lavare il riso, mettetelo nella pentola. State particolarmente attenti che non ci cada per caso un topo. Non permettete assolutamente a chiunque capiti in cucina di frugare o guardare nella pentola.
Che cosa vuole dirci Dōgen ? Non si riferisce certo soltanto al tenzo. Che cosa possiamo imparare? Nello stesso libro, è riportata una storia famosa. Se la capiamo, abbiamo capito davvero la pratica dello Zen. Nella sua giovinezza, Dōgen si recò in Cina per migliorare studio e pratica. In un torrido pomeriggio di giugno, in un monastero cinese, vide il tenzo, un monaco molto anziano di nome Lu, lavorare sodo all’esterno della cucina. Metteva i funghi a seccare su un letto di paglia.
Aveva un bastone di bambù ma era senza cappello. I raggi del sole picchiavano tanto che il lastricato bruciava i piedi. Lu lavorava sodo ed era coperto di sudore. Non potei fare a meno di pensare che il lavoro era troppo faticoso per lui. La sua schiena era come un arco teso, e le sopracciglia bianche come la gru. Mi avvicinai e gli chiesi quanti anni avesse. Mi rispose che aveva sessantotto anni. Gli domandai quindi perché non si servisse mai di assistenti. Rispose: “Gli altri non sono me”. “Hai ragione”, dissi; “posso capire che il tuo lavoro è l’attività del buddhadharma, ma perché lavori tanto duramente con questo sole ardente?”. Rispose: “Se non lo faccio ora, quando mai lo potrò fare?”. Non mi rimaneva altro da dire. Mentre proseguivo il cammino, cominciai a intuire il vero significato del ruolo di tenzo.
L’anziano tenzo disse: “Gli altri non sono me“. Esaminiamo questa affermazione. Ciò che il tenzo vuol dire è: la mia vita è assoluta. Nessuno può vivere al mio posto, nessuno può sperimentarla al mio posto, nessun altro può esaurirla in mia vece. Il mio lavoro, il mio dolore, la mia gioia sono assoluti. Nessuno di voi può sentire il dolore al mio alluce, e io non posso sentire il dolore al vostro. Assolutamente impossibile. Non potete deglutire al mio posto, non potete dormire al mio posto. Qui sta il paradosso: nell’assumermi totalmente il dolore, la gioia e la responsabilità della mia vita, se vedo chiaramente questo punto, io sono libero. Non ho aspettative, non ho bisogno d’altro.
Al contrario, noi viviamo sempre nella vana aspettativa di qualcosa o di qualcuno che renderà la nostra vita più facile, più bella. Passiamo il tempo nel tentativo di concretare questo ideale, mentre la gioia sta esclusivamente nell’agire in modo totale sopportando semplicemente quel che va sopportato, facendo semplicemente ciò che dev’essere fatto. Anzi, non si tratta di un dovere: si presenta un compito e perciò lo assolviamo.
Dōgen continua parlando del sé che si dispone naturalmente nel sé. Cosa vuol dire? Che soltanto voi potete sperimentare i vostri dolori e le vostre gioie. Se qualcosa che si presenta nella nostra vita non viene sperimentato, questa omissione è una piccola morte. Nessuno vive totalmente in questo modo, ma vediamo almeno di non perdere il novanta per cento di ciò che ci succede.
“Se non lo faccio ora, quando mai lo potrò fare?”. Solo io posso occuparmi del sé dal mattino alla sera, solo io posso accogliere la vita. E di questo contatto, che avviene secondo per secondo, parla Dōgen descrivendo la giornata del tenzo. Occuparsi di questo, badare a quello. Non solo lavare il riso ma occuparcene chicco per chicco. Non gettare via distrattamente l’acqua. Ogni boccone che prendiamo. Ogni parola che pronunciamo. Ogni incontro, ogni momento. Ecco. Non cantare i sutra con la mente da un’altra parte, non lavare a metà i piatti, non fare niente a mezzo.
Ricordo quando passavo quattro o cinque ore di fila a sognare a occhi aperti. Ora purtroppo vedo tante persone che sciupano la vita sognando. Sogniamo il compagno o la compagna ideali: sogni e ancora sogni. Se viviamo nel sogno e nelle aspettative, ci sfugge ciò che vita ci offre: l’uomo o la donna seduta accanto a noi, ordinari e ben poco affascinanti; ci sfugge la meraviglia della vita perché siamo in attesa di qualche raro evento, di un ideale. Dōgen avverte che la vera pratica non ha nulla a che fare con tutto ciò.
Ripetiamo, una volta di più, che zazen, sedere, è l’illuminazione. Perché? Perché è lì, proprio mentre sediamo, attimo dopo attimo. Il vecchio tenzo che mette a seccare i funghi: una vita intensa, dedicata a preparare cibo per gli altri. Tutti, in realtà, stiamo preparando cibo per gli altri. Tutto è ‘cibo’: battere a macchina, studiare matematica o fisica, occuparci dei bambini. Ma proviamo un profondo apprezzamento per il lavoro che svolgiamo? Siamo sempre in attesa di qualcosa: “Ci dev’essere qualcosa in più di questo“.
Sempre aspettative. Non ci limitiamo a nutrire aspettative ma consegniamo la vita intera all’aspettativa, a questi pensieri vani, alle fantasie. E, se non sono ‘produttivi’, cadiamo in preda all’ansia, alla disperazione.
Uno studente mi ha raccontato una storia esemplare. Un uomo è seduto sul tetto della casa sepolta sotto l’acqua di un’inondazione. L’acqua lambiva il tetto quando arrivarono i soccorsi su una barca. Raggiunsero l’uomo a fatica e urlarono: “Buttati nella barca!”. “No”, rispose, “Dio mi salverà”. L’acqua continuava a salire, costringendolo ad arrampicarsi sempre più alto. Nonostante l’impeto della corrente, arrivò un’altra barca. Di nuovo venne scongiurato di saltare dal tetto e di nuovo rispose: “No, Dio mi salverà, sto pregando e Dio mi salverà”. L’acqua continuò a salire e si ritrovò immerso fino al collo. Arrivò un elicottero. Si fermò sopra di lui per issarlo a bordo. L’uomo rifiutò ancora: “Dio mi salverà”. L’acqua continuò a salire e l’uomo annegò. Arrivato in paradiso si lamentò con Dio: “Perché non mi hai salvato?”. “L’ho fatto”, rispose Dio; “ti ho mandato due barche e un elicottero”.
Aspettiamo l’arrivo di qualcosa che chiamiamo verità. Non esiste. La verità è ogni secondo, ogni azione della nostra vita. La vana attesa di un luogo rassicurante da qualche altra parte ci mantiene nell’ignoranza e nel disprezzo di ciò che è in questo preciso momento. Quindi cosa significa non nutrire aspettative in zazen, nelle sesshin?
Significa ovviamente fare davvero zazen, semplicemente sedere. Non c’è nulla di sbagliato nei sogni e nelle fantasie, ma non alimentateli: vedetene l’irrealtà e staccatevi. State con l’unica cosa reale: la percezione del corpo, del respiro e dell’ambiente.
Nessuno vuole abbandonare le proprie aspettative. E, a dire il vero, nessuno le abbandonerà di colpo. Ma possiamo sperimentare periodi, di pochi minuti o di qualche ora, in cui c’è soltanto ciò che è, questo flusso. Essere davvero in contatto con l’unica cosa che abbiamo e che avremo: la nostra vita.
Qual è la ricompensa della pratica? Che la pratica si prende tutto ciò che abbiamo. E cosa ne otteniamo? Naturalmente, niente. Perciò, non nutrite aspettative. Non otterremo niente. Otterremo la nostra vita, cioè quello che abbiamo già. Non fate come l’amico di cui ho parlato all’inizio, che non apprezzava né la vita né la pratica. La vita è il nirvana. Dove pensavate che fosse?
Ricordatevi del vecchio tenzo. Se pratichiamo con lo stesso spirito con cui metteva i funghi a seccare, saremo ricompensati con questo niente del tutto.