
La fortuna dell’essere umano
Quando siamo seduti di fronte al muro praticando lo zazen shikantaza, quel samadhi dello shikantaza, dell’Hokyo zanmai, fa funzionare la mente come uno specchio.
Che cosa è uno specchio?
La natura, la funzione essenziale e totale dello specchio è di riflettere completamente senza scegliere, senza cambiare l’oggetto che gli sta davanti.
Se questo non succede lo specchio smette di essere uno specchio e così è anche con la mente profonda: se la mente non riflette più nulla, o riflette in modo distorto, non ha più la sua funzione fondamentale.
Quando per esempio ci si mette davanti allo specchio e si vede il proprio riflesso, ci si dice: “questo riflesso nello specchio sono io”. Ma nello stesso momento ci si dice “ma io non sono quel riflesso”.
Spesso questo tipo di riflessione non è soltanto causato dalla comprensione del Dharma, ma perché consideriamo che quello che sta davanti allo specchio sia di un’altra dimensione. Si pensa di se stessi che non è ciò che vediamo perché il riflesso non lo possiamo afferrare e sparisce quando ci allontaniamo dello specchio. Si crea la dicotomia perché consideriamo l’oggetto che sta davanti allo specchio come un oggetto solido, indipendente. Il corpo e tutte le identificazioni che l’ego fa con questo corpo – e per estensione con tutti gli aggregati – sono considerati, come il proprio sé, immutabili. Una cosa che possiamo afferrare, circondare, capire, manipolare. Tuttavia la cosa che si trova davanti allo specchio è proprio irreale come è irreale il riflesso nello specchio.
Il riflesso non ha solidità e nel momento in cui l’oggetto non è più davanti allo specchio, il riflesso non c’è più, non è entrato nello specchio, non si è fissato sullo specchio.
Questo oggetto, questo corpo, precisamente nello stesso modo, non è esistente, proprio come il riflesso nello specchio. È soltanto percepito come solido attraverso il gioco dell’ego che, attraverso il funzionamento della memoria, crea attaccamento e identificazione con questo corpo e, per estensione, con tutti i sentimenti, ricordi, fantasie, desideri, eccetera.
Nessuno degli aggregati, niente di ciò che compone questa esistenza in questo momento è fisso, né solido; è etereo come il riflesso, è insostanziale.
L’esperienza profonda di questo Samadhi dello Specchio Prezioso indica che la mente che riflette e tutti i fenomeni che si presentano per essere riflessi sono il prodotto del cervello. Tutti questi elementi non hanno più solidità e indipendenza del riflesso nella mente. Nel momento in cui non ci si pensa più, il sentimento non esiste più; nel momento in cui non ci si pensa più, il ricordo, la sofferenza, la rabbia, eccetera non esistono più.
Durante lo Zazen, se si respira normalmente consapevoli del funzionamento della mente come uno specchio, la respirazione si libera. Più la respirazione si libera, più diventa profonda e si produce meno attaccamento, si sviluppa e si svela la saggezza e… tutto passa.
Praticare in questo modo è una medicina per la sfera mentale, per la sofferenza interna che abbiamo. Non serve più lamentarsi di se stesso, della propria storia, delle ferite. Non serve analizzarle, almeno se vogliamo liberarci da esse.
Se vogliamo smettere di soffrire interiormente basta non pensarci più.
Ebbene, come possiamo non pensare più a qualcosa che ci ha ferito, che ci ha fatto male?
A tale scopo è utile realizzare che noi non siamo tutte queste memorie, gradevoli e non gradevoli, perché esse sono prodotti del nostro cervello. Siamo noi, ma noi non siamo quei sentimenti e quelle percezioni, questi dolori nel corpo. Questo non vuol dire che non esistano, di certo esistono. Tuttavia, soltanto in questo momento, in interdipendenza con tutti gli altri fenomeni della vita, non esistono di per sé. Se esistono in interdipendenza con gli altri elementi della propria vita vuol dire che se cambiamo la relazione tra gli elementi, cambiamo anche la sofferenza e il ricordo non è più null’altro che un ricordo.
Nel Dhammapada è scritto: chi pensa e nutre il pensiero – “quello mi ha gridato, mi ha colpito, mi ha discriminato” – vive nella sofferenza profonda; colui che ha lasciato questi pensieri conosce profondamente l’amore, vive nel nirvana. Questo versetto del Dhammapada mi ha colpito in gioventù, mi ha molto influenzato e mi ha insegnato come vivere nel Sangha e nella società. Mi ha insegnato come rispettare l’insegnamento, rispettare il mio maestro con gratitudine per la sua educazione, con gratitudine verso il Sangha più ampio che mi ha permesso di praticare il versetto del Dhammapada e sperimentare intimamente la grande saggezza di tutte le parole di Buddha.
Quest’insegnamento vi permetterà di sopravvivere e di vivere qui e ora nel Nirvana. Nirvana non è qualcosa di iperfelice, illuminante, eccetera. Il Nirvana è semplicemente l’assenza, la cessazione della sofferenza; l’estinzione del sentire la necessità masochista di creare un mondo di sofferenza per esistere, l’estinzione dell’attaccamento e dell’identificazione, l’inizio del rispetto. Rispetto e amore verso se stessi e verso gli altri. Non si può amare se stesso se non si amano gli altri. Se non ami gli altri la vita si trasforma istantaneamente nell’inferno, un Samsara senza fine.
Praticare la Via è vedere come Samsara e Nirvana non siano diversi nella presenza o no dei fenomeni, ma soltanto nel diverso approccio che abbiamo nei confronti di tutti i fenomeni: lasciando che si riflettano nello specchio prezioso. Vuol dire non escludere il funzionamento inerente allo specchio, scrivendo sullo specchio i nomi delle cose che sono presenti davanti allo specchio ma praticare Zazen e di colpo pulire tutto lo specchio, non per ottenere qualcosa, ma perché questa è la funzione essenziale, fondamentale dello specchio, della mente, della vita e null’altro.
Perciò siamo nati per praticare la Via ed educare noi stessi a essere felici, a essere sereni. Queste cose non dipendono dal nostro ambiente e dalle cose che sono successe ma da come ci approcciamo a esse; perciò Nirvana e Samsara sono come il dorso e il palmo di una mano, il dritto e il rovescio di un foglio. Non possono esistere l’uno senza l’altro, ma possiamo scegliere, decidere su quale riva, su quale sponda ci troviamo. La pratica trasforma questa sponda nell’altra riva. Sull’altra riva c’è soltanto la pratica, quindi praticando la Via le due sponde si uniscono automaticamente e non abbiamo più nulla da attraversare.
Dal momento che esiste la pratica esiste l’altra riva qui e ora!
La vostra fortuna è che siete nati come esseri umani, è frutto del vostro buon karma passato l’avere incontrato il Buddhadharma, che è semplicemente sedersi davanti al muro ed entrare nel Samadhi dello specchio prezioso, nell’Hokyo zanmai.
Rev. Sengyō Van Leuven