La pratica del Kesa

cucitura kesa

La pratica della cucitura del Kesa

La pratica del kesa consiste nel mantenere e praticare lo studio dello Zen, dell’insegnamento di base di Buddha Shakyamuni e dell’insegnamento del Grande Fondatore dello Zen in Giappone nel cui lignaggio siamo ancora oggi iscritti.

Già dal tempo di Buddha Shakyamuni le istruzioni, il modello, lo stato di spirito col quale cercare le stoffe, il punto di cucito, il taglio e l’assemblaggio dei panni, il modo in cui portare e mantenere il kesa era sottomesso a delle regole. Quelle regole sono state trasmesse da patriarca in patriarca e da maestro della trasmissione in maestro della trasmissione. Dogen Zenji lo sottolinea chiaramente e severamente nei capitoli “Kesa-kudoku” e “Den-e” del Shobogenzo.

Il kesa è stato portato da Buddha Shakyamuni e dai sui discepoli su richiesta del re, che voleva riconoscere i Bikkhu del Sangha di Buddha e non confonderli con altri religiosi erranti appartenenti a diverse scuole – che erano tanti – per fare l’elemosina. Così è nata l’idea di un abito specifico per i Bikkhu e Bikkhuni del Sangha e fino ad oggi tutti i membri del Sangha portano una versione dell’abito originale portato dal Buddha e dai suoi discepoli.

Per sottolineare l’importanza del kesa e la sua pratica vi condivido una piccola storia del tempo di Buddha Shakyamuni.

Buddha Shakyamuni ha sempre sostenuto il suo stretto discepolo e segretario privato, Ananda, di fronte agli attacchi di altri Bikkhu o laici. Lo faceva perché aveva una forte fiducia in Ananda. Il Buddha sapeva che il vasto sapere di Ananda dell’insegnamento del Buddha non lo avrebbe portato a compiere una negligenza nella propria pratica e questo sostegno era un’espressione della convinzione che la sua pratica sincera e impegnata lo avrebbe portato ad una cognizione più alta in questa stessa vita. Ananda aveva quindi un rapporto molto stretto con il Buddha.

Ma c’è stata un’eccezione, nella quale il Buddha ha rimproverato Ananda. Riguardava l’abito del monaco, cioè il kesa.

Non solo Ananda aveva sviluppato il modello, il disegno, del kesa su indicazione di Buddha Shakyamuni, ma era anche il responsabile della vera trasmissione del cucito e dello spirito del kesa.

Ananda aveva il compito di distribuire le stoffe per i kesa dei monaci e lo faceva con grande soddisfazione del Buddha, che lodava Ananda per la sua competenza nel cucito. Lo considerava molto esperto e diceva agli altri monaci di istruirsi presso di lui e di seguire il suo esempio nella pratica relativa al kesa. Sapeva fare diversi orli e fare in modo che il kesa avesse un buon aspetto non solo estetico o tecnico, ma anche nella sua manutenzione, così che nessuno poteva dire che i monaci non si prendessero cura dei doni dei laici.

Una volta il Buddha e Ananda si trovavano in un certo monastero e il Buddha vide tante sedie preparate nel monastero e chiese ad Ananda se ci vivevano tanti monaci. Ananda rispose di sì e aggiunse che quello era il momento di preparare i loro abiti. Ananda aveva fatto riferimento alle istruzioni del Buddha per cui ogni monaco avrebbe dovuto prendersi cura nel modo giusto del proprio abito, e aveva organizzato una specie di cerchio di cucito, forse per istruire i suoi codiscepoli sul modo giusto di cucire, ma sembrava essere diventata un’oretta per stare insieme e cucire e che Ananda non avesse preso in considerazione il fatto che quelle riunioni di cucito condivise erano soggette a una deriva verso un’oretta di chiacchiere casalinghe e di rilassamento dei monaci.

cucitura kesa

Il Buddha, dopo aver osservato tutto ciò, ha dato un insegnamento sul fatto che cercare la felicità solo nello stare insieme socialmente è impossibile da raggiungere, e che lo scopo più alto può essere realizzato soltanto nella solitudine dell’assorbimento nel proprio spirito, quindi dimenticando se stessi nell’impegno e nella sincerità dello studio del cucito come pratica meditativa, seguendo le regole e le indicazioni del Dharma espresse dal Buddha. La responsabilità di Ananda nel trasmettere quell’insegnamento nel modo giusto consisteva quindi nel non deviare dalla Via e perdersi quindi nei meandri delle abitudini sociali e non vedere la presenza di Mara nelle chiacchiere sociali, che stimolano il funzionamento illusorio della mente personale. Il Buddha ha ricordato ad Ananda che il Tathāgata non ha trovato nessun oggetto di attaccamento che non produca sofferenza, a causa della sua inerente impermanenza. Questo è l’aspetto universale del Dharma.

Il Buddha è quindi andato subito all’ottavo aspetto dell’Ottuplice Sentiero davanti ad Ananda, cioè la concentrazione retta. Lo scopo più alto della Via è di vedere la vacuità totale dei concetti, oggetti e nomi e ha sottolineato che questo scopo si può raggiungere soltanto sforzandosi di conoscere a fondo lo spirito in solitudine; possiamo capire qui che possiamo conoscere lo spirito soltanto fuori dalle distrazioni del sociale, e che non serve portare dentro la pratica o nel Sangha gli aspetti del mondo sociale, ma bensì impegnarsi continuamente a imparare, a conoscere profondamente lo spirito e il suo funzionamento. Bisogna concentrarsi su ogni respiro, ogni punto della cucitura, ogni azione, per raggiungere il non-fare in cui si è completamente assorbiti nell’azione retta, ovvero nella pratica della Via.

Un esempio è ricevere in piena gratitudine le correzioni e gli insegnamenti, senza cadere nella trappola della sensibilità e suscettibilità, che sono impedimenti al conoscere il proprio spirito e aprono la porta all’insincerità e alla ricerca della facilità, che mostrano che non siamo onesti con noi stessi quando pretendiamo di seguire la Via Del Buddha e che siamo presi nella confusione dell’ignoranza. Nella stessa ottica, Dogen Zenji dice che il kesa è un emblema dei discepoli del Risvegliato. Se la verità è inafferrabile e senza forma, la trasmissione retta della Via, dello Shobogenzo, deve essere manifestata, provata e attestata da segni visibili, tra i quali si trova anche il kesa, con il suo modo corretto, trasmesso giusto, di cucire, con le sue regole del colore e delle misure. Se il kesa è praticato nel modo giusto (cioè portato, mantenuto, cucito e insegnato), il Dharma del Buddha è pienamente presente e insegnato.

Ci sono delle persone col compito di trasmettere chiaramente il Dharma che non hanno mai avuto una vera iniziazione/trasmissione e pratica seguita del kesa, che stanno per creare le loro proprie regole, andando nella facilità del conformismo con la propria personalità e convinzione. Questo è nato da una errata interpretazione degli insegnamenti, di loro stessi, da una conoscenza incompleta.

Se pretendiamo di essere veri figli di Buddha e di Dogen, se stiamo sinceramente cercando di seguire la Via della Liberazione, dobbiamo capire profondamente quali sono le cose comprese nello studio dello Zen e quindi di sé.

Non si tratta di essere liberi dalle regole e fare come pensiamo che debba essere, cioè seguire l’interpretazione del proprio ego, ma di essere liberi dalle strette e limitate regole dello stesso ego. Liberarsi dal mondo dell’ego non è cosa facile e non è possibile senza impegno retto, ma è fondamentale per studiare se stessi e quindi per studiare la Via e gli insegnamenti di Buddha Shakyamuniripresi da Dogen.

Si riceve e si mantiene correttamente il kesa, e si deve trasmettere correttamente tutta la pratica del kesa.

Perciò, se organizziamo una sesshin, un evento (Fukudenkai) nel quale ci si riunisce per cucire il kesa, è per trasmettere tutto l’insegnamento del Buddha e non per riunirsi in un ambiente di convivialità sociale. Ribadisco che è per praticare la totalità dell’insegnamento di Buddha, dello Zen. Cioè per girare la torcia verso l’interno e dimenticare se stessi per poter studiare se stessi nel modo giusto, al di là delle limitazioni del funzionamento egocentrico imparato per poter funzionare nella società. Si tratta di stare nel mondo della verità inafferrabile del Dharma della liberazione. Mediante ogni punto che facciamo, cuciamo, abbandoniamo l’attaccamento sia dal volere fare perfetto e creare un’opera d’arte che susciti l’ammirazione di tutti, sia dal dovere fare, perché sarebbe così la regola, e quindi vogliamo lavorare e voler finire al più presto un bel pezzo di lavoro per poi non ripensarci più, sia dalla voglia di praticare per avere meriti di qualsiasi tipo.

Ovviamente c’è da imparare come fare e dedicarsi a migliorare l’esecuzione della tecnica. Ma praticare il kesa non è limitato ad imparare una tecnica, nemmeno al lasciar andare ogni impegno o intento ad andare oltre l’abitudine e fare tranquillamente “il proprio punto” senza essere presenti e di accontentarsi con qualsiasi risultato, pensando che siamo andati al massimo di quello che possiamo fare. Il kesa non è il riflesso della personalità di chi sta cucendo. Il kesa è l’espressione, è il materializzarsi dell’insegnamento del Dharma e della sua pratica.
Così come zazen non è una tecnica di meditazione, la pratica del kesa non è una tecnica di cucito. Non è semplicemente confezionare un abito mondano, è essere completamente presenti con impegno e sincerità, essendo l’azione. Vivere integralmente la Via, senza separazione di qualsiasi tipo. La pratica del kesa è esprimere la pratica del Dharma. Così si trasmette a se stessi il Dharma, si impara su di sé. Lo vediamo subito quando non c’è la presenza perché siamo persi nei pensieri o c’è confusione nel gruppo, causata delle chiacchiere durante il cucito. Se stiamo continuamente nell’intelletto, non è possibile imparare, ancora meno praticare con la totale presenza dell’essere. Nel cucito del kesa non si può mentire, è subito chiaro che non siamo presenti. Questo è il più grande merito del cucire il kesa, cioè di essere continuamente rinviati a se stessi e di osservarsi nello specchio del Dharma. La destrezza nel manipolare ago e filo non c’entra, ciò che conta è praticare nel modo giusto, sempre di nuovo.

Con ogni respiro si pratica, lasciamo la presa e lasciamo che la presenza pura esprima la totalità dei Tre Tesori. Con ogni punto ci si pente e si riprende rifugio nei Tre Gioielli.

Dogen lo esprime così: «fin dai tempi antichi il kesa è stato chiamato “l’abito del rilascio, della liberazione”. Praticare il kesa (cucirlo, portarlo, mantenerlo) porta la persona al non-attaccamento, alla liberazione dagli effetti del cattivo karma, dell’illusione e del desiderio». Senza kesa non c’è liberazione, e la virtù del kesa è senza paragone.

La pratica autentica del kesa non si lascia diluire come il latte con l’acqua. Il kesa rappresenta la trasmissione giusta e si deve manifestare sempre nella sua autenticità, oggi esattamente come la sua prima volta, senza deviazioni. Un praticante serio, figlio di Buddha, non porterà altro che l’abito del Buddha, e seguirà la trasmissione nel lignaggio del maestro della trasmissione dove sta studiando se stesso. Insomma, se la pratica del kesa è stata trasmessa giusta, tutti i Buddha ed esseri sensibili possono prendere con fede e sincerità rifugio nel kesa stesso. Praticare il kesa con impegno e sincerità vuol dire che ci si circonda, ci si copre con l’insegnamento del Buddha. Il kesa, quindi, non sarà mai troppo grande o troppo piccolo se trattiamo tutti e tutto con uguaglianza, senza fare distinzioni personali, ma seguendo il Dharma del Buddha che è nient’altro che il kesa trasmesso giusto.

Rev. Sengyō Van Leuven

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