di Jocko Beck, Zen Quotidiano (Ubaldini Editore)
L’illuminazione è il nucleo di tutte le religioni, ma spesso ne abbiamo un’idea falsata. Paragoniamo l’illuminazione a uno stato di perfezione, di grande tranquillità e accettazione. Non è così.
Vorrei sottoporvi una serie di domande che riguardano situazioni spiacevoli. Non dico di non tentare di prevenirle o di cambiarle, né dico che non dobbiate avere forti reazioni o forti preferenze nei loro riguardi. Ma questi esempi ci forniranno qualche barlume, che a sua volta ci consentirà di capire meglio che cosa sia la pratica. Ecco le domande:
Se mi dicessero: “Joko, domani è il tuo ultimo giorno di vita”, sarebbe perfetto? E se lo dicessero a voi, sarebbe perfetto?
Se avessi un incidente e mi dovessero amputare braccia e gambe, sarebbe perfetto? E per voi?
Se nessuno mi dovesse dire mai più una parola gentile o di incoraggiamento, sarebbe perfetto?
Se, per qualunque motivo, fossi costretta a letto per il resto della mia vita, sarebbe perfetto?
Se mi prendessero per pazza, irrecuperabile, sarebbe perfetto? Se la persona che sognate non dovesse arrivare mai, sarebbe perfetto?
Se, per un motivo qualunque, dovessi vivere come una mendicante, senza riparo né quasi cibo, esposta al freddo, sarebbe perfetto? E per voi?
Se perdessi la cosa o la persona che mi è più cara, sarebbe perfetto?
Io non sono in grado di rispondere sì a nessuna domanda e, se siete sinceri, nemmeno voi. Invece, rispondere: “Sì, è perfetto”, equivale allo stato illuminato. Ma capiamoci bene. ‘È perfetto’ non significa che non grido, non protesto, non piango o non provo odio per la situazione. Cantare e danzare sono la voce del dharma, e anche il grido e il lamento. ‘È perfetto’ non significa avere trovato la cosa che cercavo perché mi facesse contento. E allora? Cos’è lo stato illuminato? È la non separazione tra me e la mia vita, qualunque essa sia.
Le ipotesi precedenti sono tutte spiacevoli. Potrei domandare: “Se vi offrissero un miliardo di dollari, sarebbe perfetto?”; e voi rispondereste: “Oh, sì!”. Eppure, avere un miliardo di dollari causa problemi tanto quanto essere un mendicante. Il punto è essere d’accordo con tutte le situazioni che la vita presenta. Non è cieca accettazione; non significa che, se siete malati, non vi curate. Ma, davanti a una cosa inevitabile, c’è ben poco da fare. Allora, è perfetto?
Potreste obiettare che, chi sente tutto perfetto, non è umano. Da un certo punto di vista avete ragione: non è soltanto umano, è totalmente umano. Possiamo esprimerlo in entrambi i modi. Resta il fatto che una persona che non fa resistenza a nessuna situazione non segue il comportamento dell’uomo comune. Pochi, ma qualcuno vicino a questo modo di essere l’ho conosciuto. Questo è lo stato illuminato: abbracciare qualunque situazione, bella o brutta che sia. Non parlo di diventare santi, parlo dello stato (preceduto spesso da lotte terribili) in cui tutto è perfetto. Facciamo l’esempio della morte. A volte ci chiediamo come moriremo, ma non importa morire coraggiosamente quanto non avere bisogno di morire coraggiosamente. Questo ci riesce per piccole cose, ma in genere vorremmo essere diversi da come siamo. Atteggiamento davvero notevole: non imparare a ‘tollerare’ le situazioni ma imparare a non aver bisogno di nessun atteggiamento specifico al loro riguardo.
La maggior parte delle psicoterapie mira ad adattare i miei desideri e bisogni ai vostri desideri e bisogni, per favorire la pace reciproca. Ma se io non avessi nessuna obiezione verso i miei desideri, né naturalmente verso i vostri, se tutto fosse perfetto così com’è, cosa resta da rappacificare? Potreste obiettare che una persona che dicesse sì a tutto sarebbe un mago. Io non credo, una persona del genere non avrebbe niente di strano, e diffonderebbe molta pace attorno a sé. Una persona che pensa poco a se stessa, disposta a essere com’è e a lasciare che anche il resto sia come sia, è davvero una persona che ama. Potrà aiutarvi o non aiutarvi, come richiedono le circostanze. Saprebbe discernere, saprebbe cosa fare, perché sarebbe uno con voi.
Vorrei che consideraste da quale base si può rispondere a ogni situazione: “È perfetto. Non ho lagnanze da fare”. Non significa non essere mai turbati, ma che c’è una base su cui la vita poggia e che vi fa dire “È perfetto” a tutto. La pratica (che lo sappiate o no, che lo vogliate sapere o no) è scoprire questa base, che vi farà dire in ogni circostanza: “È perfetto”. O, nella preghiera del Signore: “Sia fatta la tua volontà”.
Un modo per valutare la pratica è vedere se la vita diventa più perfetta per noi. Anche se non lo possiamo dire, va bene perché questa è la nostra pratica. Una cosa è perfetta quando accettiamo di starci assieme: accettiamo la nostra protesta, la lotta, la confusione, il fatto che le cose non vanno come vorremmo. Significa disponibilità perché tutto ciò continui: dolore, lotta e confusione. In un certo senso, è ciò che facciamo nelle sesshin. Sedendo, si forma lentamente la comprensione: “C’è questa cosa che non mi piace, vorrei scappare via eppure, in qualche modo, è perfetto così”. La comprensione si estende. Immaginate di avere trovato il compagno ideale, che improvvisamente vi lascia: il dolore e l’esperienza del dolore sono perfetti così. Sedendo in zazen ci apriamo la via in questo koan, in questo paradosso che sostiene la nostra vita. Comprendiamo sempre meglio che qualunque cosa accada, per quanto la odiamo, per quanto lottiamo con essa, in un certo modo è perfetta. Sto dipingendo la pratica come se fosse troppo difficile? La pratica è difficile. Abbastanza stranamente, chi pratica ama profondamente la vita, come Zorba il Greco. Non aspettandoci niente dalla vita, ne possiamo godere. Davanti a situazioni che per altri sono irrimediabili, lottiamo e ci affanniamo, ma le godiamo perché sono la vita. È perfetto così.
A meno che non fraintendiamo clamorosamente la pratica, apprezziamo sempre meglio la lotta, la fatica e il dolore, anche se continuano a non piacerci. E non dimenticate i momenti belli della sesshin, quando la gioia e la comprensione ci fanno sussultare. Nella pratica, un residuo crea ciò che è comprensione. Non sono tanto interessata alle esperienze di illuminazione quanto alla pratica che crea questa comprensione perché, crescendo la comprensione, la nostra vita muta radicalmente. Attenzione: può anche cambiare non nella direzione che vorremmo. Si sviluppano la comprensione e l’apprezzamento della perfezione di ogni momento: del dolore alle ginocchia o alla schiena, del prurito al naso, del sudore. Cresce la capacità di dire: “Sì, è perfetto”. Il miracolo del sedere in zazen è il miracolo dell’apprezzamento.
Se nessuno mi dovesse dire mai più una parola gentile o di incoraggiamento, sarebbe perfetto? No, ma come devo praticare? Se mi rapissero in qualche paese selvaggio e mi chiudessero in una cella, come dovrei praticare? Sono esperienze limite che difficilmente ci capiteranno, ma su scala minore non mancano le contrarietà che spazzano via il quadro ideale di quella che dovrebbe essere la nostra vita. Ci si presenta una scelta: affrontare il disastro a viso aperto trasformandolo nella pratica o fuggire un’altra volta, senza imparare niente e aggiungendo problemi ai problemi? Di cosa abbiamo bisogno per vivere una vita pacificata e fattiva? Abbiamo bisogno della capacità (che impariamo lentamente e di mala voglia) di essere la nostra vita così com’è. In genere non sono disposta a farlo, e immagino che neppure voi lo siate. Ma siamo qui per imparare proprio questo.
Sorprendentemente, impariamo davvero. Quasi tutti, dopo una sesshin, sono contenti. Forse perché è finita, ma non solo per questo. Dopo una sesshin, camminare semplicemente per la strada è una cosa magnifica. Prima non lo era, ma dopo lo è. È una disposizione d’animo che non dura a lungo. Tre giorni dopo siamo già in caccia della prossima soluzione, eppure abbiamo imparato qualcosa sull’inutilità di questa ricerca. Più abbiamo sperimentato la perfezione della vita in tutti i suoi aspetti, meno siamo invogliati a sostituirla con una ricerca illusoria della perfezione.